giovedì 1 settembre 2016

Quando i baschi scoprirono l'America

Si dice che i baschi avessero scoperto l’America già nel medioevo. Salpavano dai loro porti della penisola Iberica e veleggiavano fino alle coste degli odierni Labrador e New England, da dove riportavano a casa grandi quantità di merluzzo atlantico. Non svelarono mai dove si trovasse quella loro straordinaria riserva di pesca, che ne fece per secoli i padroni del ricco mercato europeo del pesce salato (Mark Kurlansky, Cod, 1997).
Solo mezzo secolo dopo il genovese Giovanni Caboto “riscoprì” quelle terre e vi piantò la bandiera del suo datore di lavoro, Enrico VII re d’Inghilterra, seguito a distanza di sette anni da Jacques Cartier e dal suo drapeau français.
Nessuno ricorda i nomi dei marinai baschi, o vichinghi, che sapevano dell’esistenza dell’America da molto prima che Colombo la scambiasse per l’India. La cocciutaggine di Colombo rasentava la follia: per tutta la vita negò che la terra che aveva raggiunto fosse un altro continente. Assurse comunque a gloria eterna, a dimostrazione del legame che talvolta intercorre tra fama e stupidità.
Noi mammiferi del genere umano, essendo in maggioranza animali gregari, tendiamo a seguire il capo branco, ossia chi è stimato o temuto dai più. Chi invece si sente superiore ai propri simili ed è animato da un grado sufficiente di ambizione e narcisismo, si spinge a volere emulare le gesta di quel capo branco, quando non a scalzarlo dal gradino più alto del podio.
Il contrassegno dei grandi dell’umanità è la grandezza delle loro opere. Sembra una tautologia, è forse lo è. Eppure l’anonimo navigatore basco del X secolo che attraversava l’Atlantico orientandosi con le stelle non aveva nulla in meno, per coraggio e abnegazione, di un Cristoforo Colombo. Né gli mancava l’ambizione: anch’egli voleva primeggiare, al punto da rischiare la vita per farlo, sui propri compaesani.
Né erano meno arditi del loro comandante gli stessi marinai delle caravelle, giusto meno rosi dalla smisurata ambizione e dalla furia evangelizzatrice che furono motivazioni non secondarie della sua smania di raggiungere popoli lontani.
Il coraggio di un mozzo di bordo faceva tuttavia fatica a diventare epopea. I nomi di cui i libri di storia, per secoli, hanno vantato le gesta, erano quelli dei condottieri, dei generali, dei re, talvolta dei loro consiglieri di corte (spesso aggiungendo, in quest’ultimo caso, una spruzzatina di zolfo: un cortigiano, un gran visir, un Rasputin o un cardinale Mazzarino, se capita loro di possedere più potere e ascendenza del sovrano legittimo, sono condannati allo stigma di un non so che di perverso, di devianza dal corso naturale delle cose. Dio ci salvi se poi si tratta di una donna! Di Caterina De’ Medici, per esempio, o di Wu Zetian, che da concubina qual era osò diventare imperatrice della Cina).
Per un attimo, sembrò che il Novecento avesse messo definitivamente in soffitta le chincaglierie e gli ammennicoli del diritto divino a governare il sudditame. Lo fece dopo e financo a dispetto dell’infatuazione romantica per gli eroi, i condottieri e i martiri dell’Ottocento irredentista. Va aggiunto che il pantheon mito-patriottico venne in qualche modo allargato per accogliervi, sia pure di tanto in tanto, personaggi di più modesta levatura ed estrazione sociale: la piccola vedetta lombarda o il contadino siciliano fattosi garibaldino; perfino, nell’ispirata profezia marxista, un’intera classe sociale che si faceva eroe collettivo: il proletariato.
I borghesi o gli aristocratici che si battevano per la patria (alla Nino Bixio), ebbero certo i loro quarti di notorietà, come se la sterminata genia degli eroi del passato chiedesse di avere dei discendenti con un pedigree degno dei loro.
Qualcosa, tuttavia, stava già cambiando, se perfino il rappresentante di Domineddio in terra fu costretto a mettere per iscritto che lui, il successore di Pietro, era infallibile (Pastor Aeternus, 18 luglio 1870). Se hai bisogno di scriverlo e di farlo ratificare dal concilio, vuol dire che tanto scontato più non è.
Era nato il popolo e s’era fatto sovrano, ecco cos’era successo. I partiti, libere associazioni di cittadini che partecipavano alle competizioni elettorali adesso finalmente aperte a tutti, senza restrizioni di censo e più tardi di sesso, divennero i protagonisti della vita politica e sociale.
Dove le istituzioni avevano una maggiore consuetudine con la democrazia, il processo non ebbe soluzioni di continuità. In altri contesti si verificarono crisi di rigetto e il populismo alto e piccolo borghese riportò indietro le lancette della storia: alla Roma imperiale in salsa cattolica e al Sacro Romano Impero in versione pagana (con caudillos iberici di contorno). Non è cosa facile sbarazzarsi del retaggio dei millenni, men che meno del bisogno inconscio di vati e propagatori vari di sifilide ed eroiche gesta. Succede, quando le istituzioni non funzionano.
Fu una breve parentesi, poi il potere finì nelle mani dei piccoli, mediocri, spesso pingui e poco appariscenti funzionari di partito. I mozzi di bordo s’erano fatti ammiragli e i libri di storia smisero di vantare le gesta dei grandi, sostituendole con quelle dei popoli.
Perfino gli eroi cambiarono mestiere.
La lunga marcia non fu solo di Mao ma di tutti i contadini cinesi; Stachanov il minatore divenne l’eroe eponimo del proletariato sovietico; i ladri di biciclette e i terremotati di Messina presero il posto che, sul grande schermo, era stato di Scipione l’Africano; l’uomo che davvero uccise Liberty Valance, vivaddio, fu il semi-analfabeta John Wayne, non l’avvocato diventato membro del Congresso interpretato da James Stewart; lontani da occhi indiscreti, i samurai di Rashomon mettevano da parte l’eroismo e combattevano come avrebbe fatto chiunque tra noi: da ammazzasette e facendosela sotto dalla paura.
I partiti di massa aborrivano il culto della personalità. Guai a sentirsi superiori, a ritenersi indispensabili. Il bene del partito, l’interesse generale, faceva aggio su qualunque idiosincrasia, su qualsivoglia mal di pancia.
La perfezione non è di questo mondo (e forse neppure di quell’altro, a giudicare da quante volte perfino i più onniscienti tra gli dei, esasperati, si siano risolti ad allagare il creato pur di ripartire da zero). Come sempre, i difetti erano più dei pregi, ma è il destino di noi creature imperfette.
Quel che è certo è che gli statisti di cui oggi a quanto pare sentiamo la mancanza; quei leader che nostalgicamente confrontiamo con i nostri attuali rappresentanti; i Churchill, i De Gaulle, i Togliatti, perfino i De Gasperi (ah se ci fossero loro al posto di David Cameron, di Hollande, di Renzi!); per quanto forse sì, forse dentro di loro pensassero d’essere superiori, di essere meglio degli altri (un leader modesto è una contraddizione in termini), e per quanto forse proverebbero un umano, comprensibile piacere di fronte a tale postuma adulazione; tutto ciò premesso e fatta la tara delle umane debolezze, dubito si riconoscerebbero nel ritratto che viene fatto di loro.
La grandezza delle loro gesta, come lo sbarco in quell’America che Colombo negò d’avere scoperta, non fu affatto merito loro. Churchill s’oppose fino all’ultimo all’inevitabile, e mentre l’impero britannico si dissolveva davanti ai suoi propri occhi andava ancora cianciando di non voler essere il primo ministro che sovrintendeva alla fine del dominio britannico sul mondo; De Gaulle, ospitato a Londra negli anni dell’occupazione nazista della Francia, ancora brigava contro la tradizionale nemica, la Gran Bretagna, in nome della grandeur e per mantenere il controllo della Siria, con Churchill nella stanza accanto che di tanto in tanto, per ripicca, minacciava di tagliargli i viveri; Togliatti camminava sul filo di Yalta, conciliando mefistofelicamente le purghe staliniane degli intellettuali sovietici e i buoni rapporti con l’intellighenzia italiana; De Gasperi fingeva di non sapere nulla del massacro dei sindacalisti siciliani, e dei metodi poco ortodossi e ancor meno democratici grazie ai quali la mia Sicilia si addormentò comunista e si risvegliò democristiana.
La grandezza delle loro gesta dipese dall’avere tenuto le proprie posizioni a dispetto di tutto, senza farsi traviare dall’idea medioevale che siano i leader a cambiare i paesi. I grandi del passato sono uomini come noi che, per arrivismo, ambizione e abilità nel conservare la poltrona, si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Ciò che della loro epoca rimpiangiamo accadde indipendentemente dalla loro volontà.
Quando Napoleone conquistò mezza Europa, portava con sé la spada e, come libro, il codice civile francese. Bonaparte rappresentava il futuro, era il grande riformatore del manzoniano Cinque Maggio. Arrivò fino alle porte di Mosca, dove giovani, adrenalinici generali russi studiavano piani di battaglia per contrastarlo. Mentre loro spostavano e rispostavano armate sulle mappe come giocatori di Risiko, il capo dell’esercito zarista, il generale Kutuzov, vinto dalla vecchiaia e dalla disfunzione epatica, placidamente si addormentava.
Era troppo vecchio ed esperto per credere davvero che la strategia militare avesse un senso. Sapeva che i francesi sarebbero stati sconfitti dal terribile inverno russo, e che tutto il resto era solo fumo negli occhi. Tolstoj, che a differenza di altri scrittori la guerra la combatté sul serio, di questo straordinario temporeggiatore ha dipinto un meraviglioso ritratto.
Perché, questo è il punto, nessuno controlla davvero il mondo. Né Napoleone, né Obama, né la CIA, né Putin, né il gruppo Bilderberg, né tanto meno i rettiliani. Ognuno, semplicemente, difende il suo. Fino a quando, misteriosamente e spesso dopo immani tragedie, si raggiunge un accettabile equilibrio.
Questa è la storia dell’umanità. Drammatica, terribile, meravigliosa. Tutti e nessuno siamo i depositari della verità: i marinai baschi, Cristoforo Colombo e i suoi mozzi di bordo, Napoleone, il generale Kutuzov e perfino il sottoscritto, e ovviamente voi che siete riusciti a leggermi fin qui. Sbraniamoci a vicenda, se serve, ma non lasciamo che siano i capi branco, gli individui alfa, gli assai presunti uomini forti, gli onesti a prescindere, gli unti dal signore o i senza peccato a fare finta di scrivere la storia.