mercoledì 8 luglio 2015

In difesa dell'euro

Sento dire in giro, sempre più spesso negli ultimi tempi, che i paesi europei dovrebbero disfarsi dell’euro e tornare al paradiso perduto delle monete nazionali.
Sento dire che se ogni paese potesse far fluttuare il valore della propria valuta a seconda delle circostanze, crisi come quella greca sarebbero più facilmente risolvibili. In base a questa tesi, se i greci avessero avuto ancora la dracma non avrebbero dovuto fare altro che svalutarla, ripagando i propri creditori con carta straccia. Molti paesi l’hanno fatto, in passato. Noi italiani eravamo degli esperti ma perfino i tedeschi, quando è convenuto loro, sono stati ben lieti di ricorrere a questo trucchetto.
La cura, è chiaro, ha le sue controindicazioni. Una è l’inflazione, che ovviamente schizzerà verso l’alto. L’altra è l’aumento dei prezzi delle materie prime, che normalmente si acquistano in dollari: se svaluto la mia moneta rispetto a quella americana, per ipotesi del 50 per cento, il gas, il petrolio e così via mi costeranno il 50% in più a valori reali. L’inflazione poi si mangerà gli stipendi dei lavoratori dipendenti, perché i salari reali non riescono mai a tenere il passo del tasso d’inflazione.
Sento dire altresì che il potere d’acquisto degli italiani, dei greci, degli spagnoli si sia ridotto dopo l’introduzione dell’euro. Può darsi. A me però sembra un errore che in logica si definisce “post hoc ergo propter hoc”: dopo questo dunque a causa di questo. Se io incrocio mastro Filippo per strada e subito dopo inciampo e casco per terra, vuol dire che la colpa è di mastro Filippo. Che da quel momento diventa uno iettatore.
Io non credo sia colpa dell’euro. Il caso vuole che mi sia ritrovato a vivere in Gran Bretagna. Un paese che, come tutti forse saprete, l’euro non ce l’ha. Ebbene, il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti è crollato pure da queste parti. Malgrado la sterlina e l’autonomia monetaria.
Qui li chiamano working poors. Lavoratori poveri: gente con un lavoro e uno stipendio e che tuttavia non riesce a pagarsi l’affitto ed è costretta, per mangiare, a mettersi in coda davanti alle mense dei poveri. Parliamo di centinaia di migliaia di persone. Più tutti gli altri che, a milioni, sopravviviamo a stento. Sarà colpa dell’euro pure in Gran Bretagna?
Oppure sarà colpa di qualcos’altro?
Ho un lungo elenco di concause, se volete. Di cose che sono accadute nei paesi con l’euro e in quelli senza.
La riduzione del potere interventista dello Stato, per esempio. Oppure l’indebolimento delle forze sindacali, che ha dato mano libera ai datori di lavoro. Le privatizzazioni, che per due soldi hanno regalato ai privati i vecchi monopoli pubblici, peggiorando i servizi e aumentandone i costi. La deregolamentazione della finanza, che ha consentito agli speculatori di mettere il mondo in ginocchio e di rimediare al loro delirio d’onnipotenza con i soldi pubblici. Il discredito montato ad arte contro la scuola e la sanità pubbliche, e l’idea malsana che perfino la scuola e la sanità debbano funzionare in base alla logica delirante del libero mercato. La mano libera concessa agli olandesi, agli inglesi, ai lussemburghesi di rubare le entrate tributarie degli altri paesi europei e di dare poi perfino lezioni di moralità agli spagnoli, agli italiani o ai greci: il bue che dà del cornuto all’asino. Devo continuare?
Non è colpa di mastro Filippo se siete caduti e non sono dipese dall’euro le scelte politiche che hanno impoverito i cittadini europei (compresi quelli che l'euro non ce l'hanno).
A me non piace vivere con la testa rivolta all’indietro. Ciò che voglio è una nuova Europa, non una vecchia moneta.

martedì 7 luglio 2015

Al contadino non far sapere quanto è buona la feta con le pere

Grande è l’imbarazzo dei leader politici europei dopo il referendum greco. Giorni difficili li attendono, scelte da far tremare le vene ai polsi.
Devono infatti decidere se suicidarsi subito o se morire di morte lenta. Mettetevi nei loro panni: non è una decisione che si può prendere su due piedi.
Quello che davvero vorrebbero, i vari Merkel, Renzi, Juncker, è che a morire siano i greci. Vorrebbero tagliare loro i viveri, far chiudere le banche, ridurli sul lastrico. Così imparano a non stare al gioco.
Sanno però di non poter tirare troppo la corda. La geopolitica ha le sue esigenze. Dovessero sul serio mettere Atene alla porta, rischierebbero di consegnare la Grecia alla Russia. Putin s’è già ripreso la Crimea, ma stavolta sarebbe molto peggio: la Grecia è un paese della NATO.
Più probabilmente continueranno per un po’ col tira e molla dei vertici, dei finti compromessi, delle interminabili discussioni ma senza staccare del tutto la spina, aspettando (e sperando) che nel frattempo il governo Tsipras finisca per logorarsi da solo, travolto dalla crisi di liquidità che il suo paese già si trova a fronteggiare.
Del resto non hanno alternative. Qualsiasi passo in avanti nella direzione di un vero compromesso, qualunque aiuto serio l’Unione europea possa dare ai greci, verrebbe interpretato dai propri rispettivi elettori come un segno di debolezza.
Peggio ancora (dal punto di vista dei leader in carica, naturalmente). Sarebbe un segnale che è meglio non lanciare ai propri cittadini, perché pericoloso e imbarazzante insieme: mai far credere agli elettori che si può fare. Che c’è una via d’uscita.
Vorrebbe dire togliere il primo chiodo dalla bara dell’austerità economica in cui l’Europa s’è andata a cacciare. Significherebbe tirare acqua al mulino dei vari Podemos, Cinque stelle o di qualsiasi altro partito riuscirà a mettere radici nei paesi maggiormente colpiti dalle misure d’austerità.
Eccolo, il suicidio di cui parlavo all’inizio.
L’alternativa è la morte lenta. Perché moriranno comunque, se proseguono su questa strada.
La via d’uscita è solo una: dire basta all’austerità. In Grecia, in Italia, in Spagna. In Europa. Se non lo fanno i leader oggi al potere ci penseranno, più prima che poi, i loro elettori.

Angela Merkel. La donna che creò Tsipras

Leader di sinistra cercasi. Disperatamente. E non avendone sotto mano alcuno nei propri paesi, i cittadini di mezza Europa adesso guardano con speranza verso la Grecia.
Una cosa è certa. La sinistra cosiddetta ufficiale, erede dei partiti di massa del secondo dopoguerra, ha fallito.
Non ha ricette di politica economica che siano davvero alternative a quelle della destra. Al massimo, piccoli accorgimenti per rendere meno dura la vita ai propri elettori. Nulla che possa davvero scalfire l’egemonia, economica e insieme culturale, degli zombie parlanti della finanza, quelli che morirono nel 2007 ma ancora predicano dal pulpito.
Questa sinistra senza autonomia intellettuale si è di fatto consegnata all’indifferenza dell’elettorato.
In tutti i maggiori paesi europei, le sue percentuali di voto oscillano ormai da tempo tra il 20 e il 30 per cento. Anche quando vince, come solo a Hollande in Francia è riuscito di recente, lo fa giusto in virtù di una legge elettorale a doppio turno che ha consentito ai socialisti di nascondere sotto al tappeto il modesto risultato del primo scrutinio.
In questo assoluto deserto politico e intellettuale, uno Tsipras finisce con l’assurgere alle dimensioni di uno statista. I greci hanno fatto tutto quello che gli zombie parlanti chiedevano loro di fare. Hanno tagliato stipendi e pensioni, hanno ridotto del 25 per cento il prodotto interno lordo per pagare i debiti, hanno costretto alla fame centinaia di migliaia di cittadini per raggiungere un avanzo primario del 5%. Si sono comportati in maniera esemplare, ma non ha funzionato.
Pure Tsipras, attenzione, è diventato primo ministro con appena il 36 per cento dei voti, in virtù della legge elettorale greca e grazie all’alleanza con un piccolo partito della destra nazionalista.
Syriza è un partito nato nel 2001, alla vigilia della manifestazione contro il vertice del G8 di Genova, quello della caserma Bolzaneto (la partecipazione a quella manifestazione di protesta fu uno dei principali punti all’ordine del giorno). Nacque dalla fusione tra una miriade di partitini di sinistra: marxisti, trozkisti, ecologisti e così via. Una cosa di mezzo tra SEL e Rifondazione comunista. Anche dal punto di vista dei consensi elettorali. La prima volta che partecipò alle elezioni prese appena il 4%.
Poi vennero la crisi economica e la fame. La sinistra ufficiale greca, quella dei socialisti del PASOK, si trovò a essere al governo. La Grecia aveva fatto ricorso alla Goldman Sachs per truccare i bilanci pubblici, ma la compiacenza degli altri paesi europei che fino a quel momento avevano retto il gioco terminò di colpo quando i governi francese e tedesco si trovarono costretti a salvare le proprie banche dalla montagna di crediti farlocchi che avevano concesso alla Grecia (a proposito: benvenuto nel club, Massimo D’Alema. In ritardo come sempre, ma noto comunque che ti fa bene avere motivi di rancore per il tuo nuovo leader).
L’allora primo ministro greco, Papandreu figlio, di fronte alla prospettiva di dovere licenziare i dipendenti pubblici e di far pagare le tasse a Onassis, nel 2011 osò pensare a un referendum. La Merkel, Sarkozy e ovviamente i mercati internazionali lo fecero fuori (notate bene: Barack Obama, che oggi implora i leader europei di venire incontro alle richieste dei greci, si dichiarò all’epoca contrario al referendum. Se oggi sembra un sostenitore di Tsipras non è certo per simpatie politiche. E’ solo terrorizzato che una Grecia fuori dall’euro possa finire nell’area d’influenza di Putin. Pure lui, da buon leader di sinistra, le cose le capisce in ritardo).
Ad ogni modo, Papandreu figlio venne sfiduciato e si dovette tornare al voto. Vinse la destra, ma senza maggioranza. Il nuovo governo non sopravvisse. Si rivotò e stavolta, uscendo praticamente dal nulla, vinse Syriza.
Il che, secondo me, dimostra due cose.
La prima è che i leader dei maggiori paesi europei hanno la lungimiranza delle talpe. Sono stati loro, in primo luogo la Merkel, a mettere Tsipras nel posto in cui si trova. La miopia della cancelliera tedesca è talmente evidente che ha ritentato con Tsipras lo stesso giochetto che gli era riuscito con Papandreu figlio. Volete sapere una cosa? Alla vigilia del referendum proposto da Papandreu erano stati fatti dei sondaggi. In base ai quali il 60% dei greci era contrario all’accordo capestro con l’Unione europea per il ripianamento dei debiti. Cosa vi ricorda questa percentuale?
La seconda circostanza che salta evidente agli occhi, è che una sinistra che si adegua a politiche economiche di destra, che dà un colpo al cerchio e uno alla botte, che sostiene di difendere lo stato sociale e intanto taglia tutto il tagliabile e perfino di più, è condannata alla sconfitta. Peggio: all’indifferenza dei propri elettori.
Perché quando la crisi morde la carne viva delle persone, i pochi cittadini che ancora si scomodano per andare a votare scelgono di solito chi sa cosa vuole. O che, quantomeno, dà l’impressione di saperlo.