venerdì 9 ottobre 2015

Brutta bestia, la democrazia

La classe politica dei paesi occidentali deve risolvere un problema di non facile soluzione: conciliare le istituzioni democratiche cui deve il potere con la diseguaglianza economica e sociale che le sue scelte politiche stanno riportando a livelli ottocenteschi.
In altri termini, deve trovare il modo di farsi votare da un elettorato cui non ha nulla da offrire in cambio: né la prospettiva di un futuro migliore né la stabilità e la sicurezza degli anni d’oro del secondo dopoguerra. Un’impresa che fa tremar le vene e i polsi.
Perfino Lawrence Summers, l’ex “ministro del tesoro” di Clinton nonché uno dei maggiori responsabili della crisi finanziaria del 2008, sul Financial Times dell’8 ottobre ha sposato la tesi della “fine della crescita” che è al centro del “Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty.
Piketty ritiene che gli elevati tassi annui di crescita che hanno caratterizzato i paesi occidentali dal secondo dopoguerra fino agli anni ‘70 abbiano rappresentato in realtà una straordinaria eccezione storica. Prima e dopo di allora, il tasso medio di crescita di questi stessi paesi si è sempre aggirato intorno all’uno per cento.
Summers cita la teoria ma non il suo più celebre sostenitore, probabilmente perché avrebbe significato discutere delle possibili soluzioni. Piketty propone una sorta di tassazione internazionale sulle multinazionali (mi si perdoni la semplificazione). Summers non sfiora neppure la questione fiscale ma invita gli Stati a indebitarsi per favorire gli investimenti approfittando dei tassi d’interesse che a suo dire rimarranno bassissimi ancora per chissà quanto.
Summers e quelli come lui stanno finalmente cominciando ad ammettere che la Terra è rotonda ma continuano a navigare a zig-zag. Come se fosse piatta.
C’è ovviamente del metodo in questa apparente follia, che fa ricorso a sistemi vagamente keynesiani e di sinistra (niente meno che un ritorno all’interventismo dello Stato) per occultare la principale causa della stagnazione economica nei paesi occidentali: l’ineguale distribuzione del reddito. Guai a discuterne: gli amici della JP Morgan o della Goldman Sachs potrebbero togliere loro il saluto (per non parlare dei lauti cachet).
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Il capitalismo funziona solo in presenza di un mercato di sbocco per le merci (industriali o finanziarie che siano). Qualcuno produce e qualcun altro compra. Non importa che i prodotti siano necessari o superflui, che si tratti di farmaci salvavita o di smartphones, delle spille di Adam Smith o di orsacchiotti di peluche, di titoli obbligazionari o di biglietti della lotteria di capodanno.
Il proprietario del capitale e dei mezzi di produzione ottiene un profitto vendendo il suo “qualcosa” a un prezzo maggiore rispetto a quello di costo, garantendo la giusta dose di foraggio anche a chi fa da intermediario tra il produttore e l’acquirente: la ditta di trasporti, il commerciante all’ingrosso e al dettaglio, le agenzie pubblicitarie, perfino le TV commerciali.
Tutte queste persone campano su quella differenza di prezzo che il consumatore finale sarà disposto a pagare. Il problema, oggi, è che la riduzione del potere d’acquisto dei salariati e la precarizzazione del lavoro hanno interrotto questo circuito.
C’è in giro una quantità spaventosa di denaro che nessuno vuole investire in attività produttive, preferendo cercare strumenti finanziari che permettano di continuare a intascare lauti dividendi. Di fatto producendo soldi per mezzo dei soldi.
La prossima bolla finanziaria sarà quella dei titoli di Stato dei paesi emergenti, gli unici che negli ultimi tempi hanno garantito rendimenti decenti. Quella precedente, il credit crunch del 2007/8, fu figlia di un primo tentativo di risposta al problema della contrazione del potere d’acquisto della classe lavoratrice (e media) occidentale.
La disuguaglianza cominciò a crescere negli anni ’80 del secolo scorso. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, i Clinton, i Blair, i Mario Draghi e ovviamente i Summers (solo per fare qualche nome) pensarono di sostituire il welfare state e l’indebitamento pubblico con le carte di credito e i mutui. Ovvero con l’indebitamento privato.
Alla base c’era l’idea di un epocale rimescolamento della distribuzione internazionale del lavoro: trapiantare la produzione industriale nei paesi in via di sviluppo e mantenere in occidente solo le attività a più alto valore aggiunto. La riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori occidentali sarebbe stata compensata dalle facilitazioni sul credito e dall’inondazione di merci a buon mercato provenienti da posti come la Cina, il Brasile, il Vietnam o la Romania. Il muro di Berlino era nel frattempo crollato e i paesi al di qua della cortina di ferro si trovarono inondati da lavoratori qualificati, a basso costo e per giunta bianchi (gli USA, per parte loro, avevano e hanno il loro bacino di manovalanza al di là del Rio Bravo). L’Europa dell’Est era tornata finalmente a essere ciò che era stata prima del comunismo: esportatrice netta di manodopera (come, del resto, il Mezzogiorno d’Italia).
Per un po’ sembrò funzionare. Tutti erano felici: gli amministratori delegati, gli azionisti, i politici e perfino la classe media che li votava. Certo, alcuni paesi alla periferia dell’Occidente faticavano un po’ a stare dietro alle “locomotive” dello sviluppo. L’Italia, che aveva accumulato uno spaventoso debito pubblico negli anni della Milano da bere ed era stata addirittura cacciata dal sistema monetario europeo perché insisteva a svalutare la lira per ripagare i creditori internazionali con carta straccia, vide scomparire di colpo un’intera classe politica e si affidò all’unto dal Signore, ai fascisti usciti dalle fogne e ai figli e ai nipoti degli immigrati meridionali che un giorno scoprirono d’essere niente meno che discendenti dei celti.
I greci assunsero un manipolo di consulenti della Goldman Sachs e si fecero truccare i conti pubblici. Gli spagnoli costruirono intere città per i pensionati inglesi e tedeschi con i soldi delle proprie banche, gettando le premesse per una gigantesca bolla immobiliare. L’Irlanda divenne di fatto un paradiso fiscale, e i tanti miliardari che usufruirono dei suoi servizi ne furono talmente contenti da omaggiarla del titolo di “tigre celtica”.
Le malefatte e l’arte d’arrangiarsi dei paesi più poveri avrebbero già dovuto fornire indizi sufficienti. Perché si trattò, oggi lo sappiamo, di un delirio collettivo di proporzioni gigantesche.
La classe politica dei paesi occidentali che contano è riuscita, per un po’, a sopravvivere alle proprie malefatte. Non ce l’avrebbe mai fatta, senza l’aiuto interessato dei mezzi d’informazione, quasi tutti di proprietà degli stessi gruppi economico-finanziari che avrebbero tutto da perdere, se i cittadini fossero debitamente informati.
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La democrazia, in Europa e negli Stati uniti, ha una plurisecolare tradizione. Non è facile sbarazzarsene. Non potendo affrontare l’ostacolo direttamente, occorre aggirarlo. I paesi in cui le classi dirigenti sono più organiche e consapevoli hanno da tempo trovato una soluzione.
Negli Stati uniti devi registrarti per andare a votare, e i poveri non hanno né voglia né tempo di farlo. In Francia si vota col doppio turno: lasciano sfogare i trotzkisti e i lepenisti al primo turno, poi tutto torna comme il faut al ballottaggio. In Gran Bretagna vige il sistema uninominale: contano i collegi, non la percentuale nazionale dei voti. In Germania, le differenze tra i democristiani e i socialdemocratici sono talmente minime che basta avere un voto in più dei rivali e subito una “grosse koalition” risolve ogni problema di governabilità. E’ quello che Renzi sta tentando di fare in Italia: un sistema che consenta di vincere le elezioni senza averlo fatto, puntando cinicamente sulla bassa affluenza al voto (Renzi, in questo, è davvero il Tony Blair italiano. Questa tattica elettorale, l’ex primo ministro inglese l’aveva addirittura teorizzata).
Il problema è che proprio questi sistemi elettorali cominciano a mostrare le prime crepe. La democrazia è un fiume carsico. Pensi di essere riuscito a tenerla sotto terra, ma l’acqua continua a scorrere anche laggiù.
C’è stata un’altra epoca in cui l’Occidente ha visto convivere disuguaglianze sociali simili a quelle di oggi e sistemi elettorali a suffragio universale. Erano i primi del Novecento. Per trovare sbocchi alle proprie merci, i paesi ricchi dell’Occidente s’imbarcarono in avventure coloniali. Il risultato fu la prima guerra mondiale, le cui conseguenze gettarono i semi del fascismo e del nazismo e provocarono la seconda.
Democrazia e disuguaglianza non possono convivere. I blairiani, in Gran Bretagna, s’erano inventati un sistema per ridurre il potere dei sindacati alle primarie del partito laburista. Decisero che bastasse pagare tre sterline per votare, anche senza essere iscritti al partito. Il risultato del loro colpo di genio è stato l’elezione del loro arci nemico Jeremy Corbyn. Per candidarsi alle primarie del partito laburista occorrono almeno 35 firme di parlamentari in carica. Corbyn non le aveva. Fino a quando, all’ultimo minuto, un paio di parlamentari di altre correnti decise di firmare pur sottolineando che non avrebbe mai votato per lui. “Lo facciamo – dissero – perché è giusto che ci sia un dibattito”. Dopo di che, la regola inventata dai blairiani per impedire ai Corbyn di vincere le primarie si è rivolta loro contro. Centinaia di migliaia di elettori britannici hanno versato le tre sterline e hanno votato per Corbyn.
Negli Stati uniti, Hillary Clinton ha criticato l’accordo di libero scambio con i paesi del Pacifico appena firmato da Obama e dagli altri governi delle nazioni interessate. Un fatto davvero curioso, dal momento che la Clinton è stata il "ministro degli esteri" dell’amministrazione Obama e ha personalmente condotto buona parte delle trattative.
Ha dovuto farlo perché il suo rivale alle primarie del partito democratico, il socialista Bernie Sanders (una sorta di Jeremy Corbyn americano), la sta seriamente insidiando. Negli ultimi tre mesi, la Clinton ha raccolto 28 milioni di dollari di donazioni elettorali, provenienti per lo più da multimilionari.
Appena 2 milioni di dollari in più del suo rivale. Con la differenza che quest’ultimo ha ricevuto donazioni dall’importo medio di 25 dollari. I democratici della classe media stanno sostenendo il socialista Bernie Sanders, che da sempre si oppone al trattato di libero scambio con i paesi del Pacifico. Ecco spiegato l’improvviso voltafaccia di Hillary Clinton, che con una mano firma il trattato voluto dai suoi finanziatori e con l’altra lo critica per non alienarsi il sostegno degli elettori democratici.
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Piccole crepe si stanno aprendo sul monolite del “pensiero unico”. Dimenticatevi Siryza, Podemos o i Cinque Stelle (tra parentesi: quello grillino è un partito piccoloborghese con molte venature neoliberiste, al contrario di Tsipras e Podemos). Non è dalla periferia dell’impero che il sistema di potere dominante potrà venire minacciato.
E’ nei paesi che contano che faranno di tutto per tappare queste crepe. E per tenere a bada la democrazia.

martedì 22 settembre 2015

Largo ai vecchi

Centinaia di migliaia di cittadini britannici, in gran parte giovani, si sono iscritti alle primarie del partito laburista per votare Jeremy Corbyn, un signore di 66 anni che nel 2020, quando si rivoterà in Gran Bretagna, ne avrà 71. E’ un laburista di sinistra. Vuole privatizzare le ferrovie, le poste. Vuole far pagare più tasse ai ricchi. Stupidaggini da vecchio rincoglionito, hanno detto i suoi avversari laburisti (tutti molto più giovani).
Non vuole far la guerra ai conservatori per strappare loro i voti cosiddetti moderati. Non fa appello agli elettori di centro. Vuole che gli elettori dell’UKIP tornino a votare laburista. In Italia, sarebbe come se il leader del partito democratico facesse appello agli ex elettori del PCI che oggi votano Lega Nord.
Jeremy Corbyn è un vecchio politico di scuola marxista. Ai comizi canta bandiera rossa e se gli tocca di intonare God Save the Queen fa finta di non ricordare le parole. L’establishment inglese è vagamente stupito che un vecchio bacucco di tal fatta abbia potuto attrarre tanto consenso. E parlo dell’establishment di destra come di quello di sinistra (compreso l’organo semi-ufficiale del partito laburista, il Guardian, che dopo aver cercato di affossare Corbyn ha repentinamente cambiato linea quando ha capito che non stava funzionando).
I conservatori dicono di essere contenti. Nelle settimane scorse s’era addirittura parlato di infiltrati conservatori che si sarebbero iscritti al partito laburista pur di votare per un candidato troppo di sinistra per poter vincere le elezioni. Fesserie.
La Gran Bretagna, con gli Stati uniti e l’Italia, è in testa alla classifica dei paesi occidentali con le maggiori diseguaglianze sociali.
I servizi pubblici privatizzati negli ultimi 30 anni funzionano peggio di quando erano in mano allo Stato. Perché i privati, semplicemente, non investono.
Se avete la fortuna di avere un lavoro, dimenticatevi le garanzie che uno si aspetterebbe di trovare in un paese sulla carta civile. I diritti sindacali esistono di fatto solo per il settore pubblico, e Cameron è lì già pronto a limitare ulteriormente il diritto di sciopero. Il mercato immobiliare e degli affitti è in mano a una ricchissima cricca di speculatori.
Ci sono voluti 30 anni per trasformare uno dei paesi più egualitari al mondo in uno dei più ferocemente ingiusti. Dieci dei quali a guida laburista.
I rappresentanti delle classi lavoratrici sono stati letteralmente espulsi dal parlamento. Quasi tutti i parlamentari hanno origini borghesi, conservatori o laburisti che siano. Gli unici poveri che frequentano sono i propri domestici filippini.
Tutto questo è stato possibile perché moltissimi “poveri”, non essendo più rappresentati da nessuno, hanno semplicemente smesso di votare.
Il problema, oggi, è che le giovani generazioni stanno pagando il conto di questo delirio classista. Non hanno strumenti per salire i gradini della scala sociale, perché l’élite al potere l’ha letteralmente smantellata.
Il problema è che molti elettori laburisti non ci hanno capito più niente. Alcuni hanno creduto alla favola degli immigrati che rubano il lavoro agli inglesi e hanno votato UKIP (che, in maniera solo apparentemente paradossale, ha preso più voti dove ci sono meno immigrati). Oppure, in Scozia, sono fuggiti in massa (il Labour ha preso un solo seggio in quella che era una sua tradizionale roccaforte. Gli altri 50 e passa sono andati al partito nazionalista scozzese, che è più a sinistra).
Così oggi la Gran Bretagna si ritrova con un primo ministro conservatore che ha la maggioranza assoluta in Parlamento pur avendo preso il 36 per cento dei voti. Il che significa che il 64 per cento degli elettori non aveva votato per lui. E’ un numero che fa una certa impressione.
Jeremy Corbyn, anagraficamente parlando, potrebbe essere il padre di molti dei nuovi militanti laburisti che si sono iscritti al partito per votare per lui.
Le sue vecchie, anacronistiche ricette, sembrano (e sono) di nuovo attuali. Solo lo Stato può ridurre le diseguaglianze sociali. Solo i diritti sindacali possono proteggere i lavoratori dallo sfruttamento. Non esistono terze o quarte vie.
Una boccata d’aria fresca, dopo tanti anni di stupida, avvilente mitizzazione del mercato, della competizione e della giovinezza.
Tra cinque anni vincerà? Seriamente, chi può avere la presunzione di rispondere a questa domanda? Chi può sapere come sarà il mondo tra cinque anni? Di sicuro, se la rapacità e il parassitismo della classe dirigente britannica continueranno a produrre le politiche di macelleria sociale degli ultimi 30 anni, nella pretesa di potersi mangiare sia l’uovo di oggi che la gallina di domani, un leader laburista che dica cose fuori dal coro sarà il migliore dei candidati possibili.

lunedì 31 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. La levatrice della storia

Non c’è nazione al mondo che non abbia edificato le proprie città sopra i cadaveri. Scavate sotto qualunque monumento, cercate sotto le fondamenta di qualsiasi palazzo del potere, e troverete un cimitero. Nessun Paese al mondo, nessuna civiltà è innocente.
L’Italia non fa eccezione. La sua levatrice fu la guerra, perché il secolo che la vide nascere, l’Ottocento, fu un’età di guerre e di rivoluzioni. Partorito tra i fumi e la polvere da sparo delle campagne napoleoniche, il Secolo lungo esalerà gli ultimi respiri nelle fangose trincee della prima guerra mondiale.
Se non si ha presente tale contesto, perfino un episodio apparentemente remoto e periferico come la rivolta di Santa Margherita di Belice del 4 e 5 marzo 1861 risulterà incomprensibile.
Eppure fu una delle prime rivolte dell’Italia unita. Appena due settimane prima, alle ore 11 antimeridiane del 18 febbraio 1861, Vittorio Emanuele II aveva aperto la seduta inaugurale della prima legislatura del Regno.
“L’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra” disse il sovrano ai deputati e senatori riuniti in seduta comune. Non prima, tuttavia, di avere ricordato a cosa si dovesse il raggiungimento di un simile obiettivo. Non prima di avere rimarcato per grazia di chi l’Italia fosse nata: “Per mirabile aiuto della divina Provvidenza, per la concorde volontà dei Popoli, e per lo splendido valore degli Eserciti”.
Lo “splendido valore degli Eserciti”. Eserciti con la “E” maiuscola. Come la “P” della Provvidenza e dei Popoli. Le sentenze dei contemporanei sono a volte meno ardue di quelle dei posteri.
Posatasi la polvere da sparo, le nuove classi dirigenti italiane si trovarono a dover fronteggiare un compito difficilissimo. Forse, per molti versi, addirittura impossibile: costruire un Paese i cui neonati cittadini non parlavano neppure la stessa lingua.
L’impresa in cui riuscirono ha dello straordinario. Noi che oggi diamo per scontato il fatto di essere “italiani” tendiamo, temo, a dimenticarlo.
Non fraintendetemi. L’aggettivo “straordinario” va inteso nel senso letterale di un qualcosa che va fuori dell’ordinario. Non gli attribuisco alcuna accezione positiva. Lo maneggio con le pinze di chi ha la dolorosa, terribile consapevolezza che la storia la scrivono sempre i superstiti.
So bene che un sacco di gente è morta, perché tale impresa venisse portata a termine. Ingiustizie sono state commesse. Due guerre mondiali, vent’anni di dittatura fascista. E perfino, giacché di questo mi sto occupando, la mafia. Già, la mafia.
Alle due e mezza della notte fra il 3 e il 4 di marzo, quando venne assassinato Giuseppe Montalbano, il padre di quell’omonimo “barone” di paese che era solito partecipare alle cene della nonna di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la Sicilia era in piena anarchia post-rivoluzionaria. Gli equilibri del potere locale erano instabili, per non dire inesistenti.
Un regime era caduto e un altro doveva ancora prenderne il posto. Giuseppe Montalbano, il morto ammazzato, era un garibaldino. Uno che pensava di far parte della cordata vincente. Non aveva idea di quanto fosse in errore.
Il suo curriculum vitae sembrava perfetto per l’ipotetica nuova Italia che pareva sul punto di materializzarsi. Aveva partecipato alla rivolta palermitana del 1848 e poi, dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva messo su un gruppo di picciotti locali e s’era aggregato ai Mille.
Nel momento in cui fu assassinato era consigliere provinciale in carica. Scoprì quand’era troppo tardi, forse senza neppure avere il tempo di capirlo, di essere finito dalla parte sbagliata della storia.
A sparare, disse la voce popolare, furono i gabellotti che gestivano i feudi dei Filangeri di Cutò. Morì per mano borbonica nell’età dei Savoia. E furono i Savoia a salvare i suoi assassini.
Ciò tuttavia non impedì al figlio del morto di passare le serate estive giocando a scopone nel palazzo di famiglia di quegli stessi Filangeri di Cutò.
Da siciliano, mi sforzo da anni di capire la mia terra. Per riuscirci, mi servirà probabilmente raccontare la storia dei tanti Giuseppe Montalbano.
Del Giuseppe Montalbano ammazzato dai gabellotti dei Lampedusa. Del figlio Giuseppe Montalbano che sposò gli eredi degli assassini. Del di lui figlio Giuseppe Montalbano che divenne parlamentare comunista e poi, in età più avanzata, ferocemente anti-marxista. Del figlio di quest’ultimo, Giuseppe Montalbano anch’egli, l’insospettabile proprietario della casa in cui Totò Riina viveva al momento dell’arresto.
Se comprendo la storia di questa famiglia forse, un giorno, potrò perfino a comprendere in che posto sono nato. Non so se riuscirò nell’intento. Solo una cosa posso già anticiparvi. Non aspettatevi da me giudizi morali. Giuseppe Montalbano, l’ultimo della serie, io l’ho conosciuto. Ho cenato con lui, l’ho visto piangere, l’ho visto ridursi in miseria per pagare gli avvocati. L’ho visto mettere all’asta la casa in cui il suo trisavolo, il Giuseppe Montalbano garibaldino, riunì i picciotti del Belice all’indomani dello sbarco dei Mille.
Fatte le dovute premesse, è tempo di cominciare. Erano le due e trenta del mattino del 4 marzo 1861…

sabato 29 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. Capitolo terzo

Erano tempi tumultuosi. Il Regno dei Borbone di Napoli era miseramente crollato pochi mesi prima e il 21 ottobre 1860 la Sicilia aveva votato l’annessione al neonato Regno d’Italia. Passata l’euforia, i piemontesi vincitori cominciarono ben presto a capire in quale pasticcio s’erano andati a cacciare.
Nel dicembre del 1860, Vittorio Emanuele II aveva nominato il suo primo luogotenente generale delle provincie siciliane, sbarcato sull’Isola per chiudere definitivamente il breve interregno della proditattura d’ispirazione garibaldina.
Si trattava di un fedele servitore di casa Savoia, il marchese Massimo Cordero di Montezemolo, antenato dell’ex-presidente di Confindustria e della Ferrari.
La Formula 1 non era ancora stata inventata, ma la velocità con cui il marchese fuggì dalla Sicilia avrebbe certamente fatto invidia a uno Schumacher.
Già il 20 gennaio del 1861, meno di un mese e mezzo dopo la sua nomina, il flaccido marchese (“un ammasso di carne fatto inerte dal grasso e dalla crapula”, nella descrizione di un agitatore mazziniano) supplicò il ministro dell’Interno Marco Minghetti perché lo sollevasse dall’incarico.
C’è da capirlo, poveraccio. La Sicilia era, in effetti, una terra incomprensibile. Perfino agli occhi delle sue classi dirigenti locali, che oramai da decenni vivevano in un limbo politico-istituzionale.
L’abolizione del feudalesimo (1812) e la conseguente soppressione delle proprietà allodiali e dei fedecommessi, ossia degli istituti giuridici che fino a quella data avevano impedito agli eredi degli antichi casati nobiliari di vendere le proprie terre, aveva già permesso a una media borghesia agraria di nascere, di consolidarsi e perfino, in qualche caso, di acquistare antichi, decaduti blasoni o di crearne di nuovi.
Leggendo il “Gattopardo” sembra quasi che il vituperato don Calogero Sedara si sia materializzato da un giorno all’altro, manco fosse sbarcato a Marsala sul Lombardo di Nino Bixio.
E invece la nemesi dei Salina era già bella che radicata in Sicilia da molto prima dell’arrivo dei Mille. L’annessione dell’Isola al regno d’Italia, l’introduzione di un primo, rudimentale ed elitario sistema elettorale, fu solo lo strumento con cui la locale borghesia trovò finalmente il modo di superare quella che Karl Marx avrebbe definito la contraddizione tra la sovrastruttura politica e la sottostante struttura economica: tra una nobiltà che continuava a detenere il potere politico e la connessa, aristocratica pompa, pur avendo ormai da decenni ceduto a una nuova borghesia l’effettiva gestione dei propri patrimoni.
Fu proprio questa borghesia a trarre vantaggio dall’unificazione dell’Italia. Ed è esattamente in questo preciso momento che nacque ciò che in seguito sarebbe stata definita la “questione meridionale”. Ebbene sì: in questo esatto, delicato momento storico.
Una questione, o domanda che dir si voglia, che ruota intorno a una semplice, apparentemente banale domanda: che borghesia era, quella di razza siciliana?

lunedì 17 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. Capitolo secondo

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da bambino, trascorreva le sue estati a Santa Margherita di Belice.
Per quattro secoli quel piccolo paese in provincia di Agrigento era stato un feudo dei Filangeri di Cutò, la famiglia della madre Beatrice. Lo era esattamente dal 17 settembre del 1620, quando Giuseppe Filangeri pagò i debiti lasciati dai baroni che avevano fondato il paese, al cui casato apparteneva la moglie.
Il Lampedusa bambino vive ovviamente in un’altra epoca. Siamo ai primi del ‘900. In Sicilia il feudalesimo era stato formalmente abolito cento anni prima (1812). Senza che ciò avesse diminuito più di tanto il rispetto, fosse anche solo formale, per l’etichetta dell’ancien régime.
Tanto è vero che i maggiorenti locali facevano a gara per essere invitati nel salotto di Beatrice Filangeri. Per darsi un tono e fingersi nobili per un giorno.
Pranzavano a turno nel suo palazzo e ogni due settimane vi si riunivano per giocare a scopone nella sala da ballo.
“A me sembravano, come forse non erano, unanimemente delle brave persone” scrive l’autore del Gattopardo nei suoi “Ricordi d’infanzia”.
Badate bene: “Come forse non erano”. Lampedusa è troppo siciliano per mettere la mano sul fuoco per chicchessia, e nello stesso tempo troppo colto per fidarsi delle proprie memorie infantili. La lente deformante della nostalgia, si sa, può trasformare il più emerito dei gaglioffi in una persona che non corrisponde ai nostri ricordi e che tuttavia teneramente rimpiangiamo.
Di tutti quegli ospiti abbozza dei veloci, divertiti ritratti. C’era Peppino Lomonaco, che andava a caccia col nonno ed era l’unico a potersi permettere di dare del tu alla madre (che rispondeva con “un rispettoso Lei”). C’era il grosso proprietario terriero Nenè Giaccone, considerato un viveur perché due mesi l’anno viveva in albergo a Palermo. Il cavalier Mario Rossi, che parlava sempre di Frascati avendovi lavorato come ufficiale postale. C’era poi “l’intellettuale del paese” Giorgio Di Giuseppe che a casa sua, la sera, suonava Chopin. Oppure il dottor Monteleone, che aveva studiato a Parigi dove raccontava di avere avuto “avventure straordinarie”.
Solo quando parla di un certo Montalbano (nessuna parentela col sottoscritto – n.d.a.) le parole di Lampedusa si fanno acide e cattive. Citiamo per intero: “Montalbano, anch’egli grosso proprietario, il vero tipo del “barone di paese” ottuso e grossolano, padre, credo, dell’attuale deputato comunista”.
Perché, di colpo, il tono ironico si fa così feroce? Talmente feroce da sembrare perfino fuori luogo? A cosa si deve tanta acrimonia?
Rispondere oggi a queste domande non è facile, per non dire impossibile. Chi può sapere cosa passasse per la testa di Tomasi di Lampedusa?
Certo è strano. Tanto per dire, avrebbe dovuto provare più rancore nei confronti del viveur Nené Giaccone, che invece descrive con superiore distacco. Il cavalier Giuseppe Giaccone, parente del Nené in questione, era stato sindaco del paese dal 1902 al 1914. I Giaccone figurano tra gli acquirenti degli ultimi feudi di Santa Margherita che la famiglia Filangeri fu costretta a vendere per pagarsi i debiti. Eppure Lampedusa lo tratta quasi con affetto. Montalbano, invece…
E poi com’è possibile che un bambino (non dimentichiamoci che Lampedusa sta rievocando le memorie della sua infanzia) possa descrivere una persona mai più rivista con parole così “adulte”? Un “barone di paese”… no, decisamente non è una definizione che si sente spesso in bocca ad un bambino.
Il sospetto che i ricordi d’infanzia c’entrino davvero poco non sembra per nulla peregrino.
Di sicuro, la presenza di Montalbano a quelle serate “mondane” era incomprensibile. Se c’era una persona che mai avrebbe dovuto varcare la soglia di casa Filangeri, quella persona era proprio Giuseppe Montalbano.
Portava lo stesso nome del padre, Giuseppe Montalbano pure lui. Oggi la legge lo proibisce, ma all’epoca ancora si poteva.
Era anzi una regola non scritta, un’usanza, che se un bambino nasceva dopo la morte del padre ne ereditava il nome. Ed è esattamente per questo motivo che Giuseppe Montalbano si chiamava come suo padre.
Non fu una morte qualunque. Se in quegli anni qualcuno si fosse preso la briga di domandare ai passanti di Santa Margherita in che giorno e in che anno era morto Giuseppe Montalbano senior, quasi tutti avrebbero saputo dare la risposta: 3 marzo 1861.
Da allora e fino ai nostri giorni, se a Santa Margherita vogliono dire che c’è stato un putiferio non usano la più comune espressione “è successo un ‘48”. La versione locale è “succidiu un quattru e cincu di marzu” (è successo un 4 e 5 di marzo).
Et pour cause! L’indomani della morte di Giuseppe Montalbano senior, a Santa Margherita scoppiò la rivoluzione
(continua)

domenica 16 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. Capitolo primo

Le cose cambiano di continuo. Lo vediamo tutti i giorni. Ciò non toglie che sia davvero difficile sottrarsi al fascino di Fernand Braudel e della sua teoria della “lunga durata”. Diceva il grande storico francese che la storia è come una colla resistentissima (mi si perdoni la banalizzante metafora) e che la struttura di base dei popoli e delle civiltà cambia, se lo fa, con millenaria lentezza.
Per esempio, ecco che dopo sette secoli di dominio musulmano in Spagna (diceva appunto Braudel), già all’indomani della Reconquista gli spagnoli tornarono come se nulla fosse a essere cristiani. Come se quei settecento anni di dominio musulmano non ci fossero mai stati.
L’idea che Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva della Sicilia è invero assai braudeliana. La sua immagine dell’Isola è quella di un luogo immodificabile, eterno, congelato nel suo arcaismo, impermeabile alle rivoluzioni e alle sostituzioni delle classi dirigenti, sempre uguale a com’era e a come sarà.
Eppure Braudel aveva torto. L’Europa che tornò a essere cristiana dopo la cacciata dei mori, fino a pochi secoli prima non era cristiana per nulla. Fu solo trecento anni dopo la nascita di Cristo che un imperatore romano fece del cristianesimo la religione ufficiale e gettò nel dimenticatoio Giove, Minerva, Nettuno e tutto il resto dell’Olimpo.
Per superare questa evidente contraddizione, Braudel fu costretto a teorizzare una sostanziale continuità tra l’Europa romana e quella cristiana. Tra Giulio Cesare e Carlo Magno, tra Cicerone e Tommaso d’Aquino, tra Ovidio e Jacopone da Todi. Fu costretto a usare i termini “Occidente”, “cristianità” e “romanità” come se fossero sinonimi. Lo sono veramente?
La “lunga durata” del paganesimo in Sassonia terminò quando Carlo Magno massacrò in nome di Dio e della romanità centinaia di migliaia di sassoni. La storia sa come prendere delle scorciatoie, quando vuole davvero cambiare le cose.
A cambiare la Sicilia, a farla diventare “moderna”, ci provarono i piemontesi. Imposero il codice napoleonico, di fresco importato in Savoia, alle nuove popolazioni italiche. Giusto per avere un’idea del contesto storico, il primo ministro dell’epoca, Camillo Benso conte di Cavour, che parlava il francese molto meglio dell’italiano, era convinto che la lingua dei siciliani fosse l’arabo.
Non funzionò. O almeno così dicono. I siciliani, e come loro i calabresi e i napoletani, trasformarono le nuove istituzioni in strumenti per accaparrarsi il potere e coinvolsero lo Stato e le sue strutture locali nelle faide tra clan.
Con una differenza. Apparentemente insignificante eppure importantissima. Mentre una volta erano solo i Lampedusa a battagliare, adesso anche i Sedara potevano farlo. In maniera sempre più capillare mano a mano che il bacino elettorale si allargava perfino (orribile dictu!) agli analfabeti. La lotta per il potere non era più riservata ai potenti di sangue blu. Perfino quelli di basso ceto potevano ormai permettersi di diventare borghesi e a volte addirittura baroni.
Di questo, a leggerlo bene, parla “Il gattopardo”. Il romanzo descrive gli ultimi anni di agonia di un ceto dirigente. Racconta l’impossibile tentativo del principe di Salina di conservare i propri privilegi di classe in un mondo che sta velocemente cambiando. Ed è certo paradossale che il termine “gattopardismo” venga oggi utilizzato per descrivere un potere che finge soltanto di cambiare ma in realtà rimane sempre lo stesso.
Il vocabolario Treccani lo definisce così: “l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe”.
A giudicare dall’uso che si fa del termine “gattopardo”, sembrerebbe che in Sicilia governino da sempre le stesse persone. Eppure il romanzo di Lampedusa parla dell’esatto contrario, ossia della caduta di una vecchia classe dirigente e dell’ascesa al potere di un nuovo ceto politico. Della fine del secolare potere dell’aristocrazia terriera siciliana e della nascita di una nuova borghesia. Chiamatela borghesia agro-mafiosa, se volete, ma di una rivoluzione borghese comunque si è trattato.
Per essere più espliciti, la Sicilia che Lampedusa descrive nel suo romanzo è l’esatto contrario di ciò che lui pensava della Sicilia e dei siciliani. Se mai un libro ha tradito il pensiero del suo autore, è stato proprio il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.
La Sicilia degli anni ’50, quando Lampedusa scrisse il Gattopardo, era profondamente diversa da quella della seconda metà dell’Ottocento, l’epoca in cui il romanzo fu ambientato. Eppure Lampedusa pensava di ritrarre la stessa, immutabile realtà.
Com’è stato allora possibile che la nostalgica e per molti versi disincantata descrizione della fine di un’era si sia trasformata nel suo opposto? Che il racconto di un così radicale cambiamento sia diventato il simbolo dell’immutabilità delle cose?
Quanta dose di pregiudizio nei confronti di siciliani è stata necessaria, perché potesse accadere? E non parlo solo del pregiudizio degli “altri” nei confronti dei siciliani, bensì anche di quello dei siciliani nei confronti di se stessi.
Com’è stato possibile che Tomasi di Lampedusa abbia scritto un romanzo che ha raccontato con straordinaria efficacia l’esatto contrario di ciò che lui pensava?

martedì 4 agosto 2015

Quando gli zombie divennero cannibali

Poveri zombie, come li abbiamo ridotti!
Ci siamo ormai talmente abituati a vederli camminare in branco, a osservarli disgustati mentre mordono e sbranano, a fare il tifo per chi li abbatte a fucilate o a calci sulla testa, da esserci completamente dimenticati di che cosa fossero in origine.
Era il 1929 quando un libro li fece conoscere per la prima volta ai lettori anglosassoni. William Seabrook, un autore americano di libri di viaggio all’epoca molto popolare, dedicò loro un capitolo del suo reportage da Haiti.
I suoi zombie non erano affatto mangiatori di uomini. Traduco dal suo “The Magic Island” (l‘Isola della magia): “Lo zombie è un corpo umano senz’anima. E’ un cadavere dissepolto cui uno stregone ha donato una parvenza di vita. Un morto che si può fare camminare, muovere e agire come se fosse vivo. Chi ha il potere di farlo cerca una tomba scavata da poco, disseppellisce il cadavere prima che cominci a putrefarsi, gli ordina di tornare a muoversi e lo fa diventare un servo o uno schiavo, a volte per fargli commettere un crimine ma più spesso per affidargli i lavori più pesanti e più degradanti”.
Gli zombie erano tutto tranne che cannibali. Tra l’altro non avrebbero mai potuto mangiare la carne umana, perché secondo la leggenda qualunque alimento che contenesse del sale ne provocava il risveglio e li faceva tornare alle proprie tombe.
Erano schiavi, e non è certo un caso che il loro mito sia nato ad Haiti, la cui popolazione era composta dai discendenti delle centinaia di migliaia di africani che i negrieri di mezzo mondo avevano trascinato lì in catene. Come non è un caso che i primi zombie di cui Seabrook parla lavorassero come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero di quella che oggi chiameremmo una multinazionale americana dell’agroalimentare.
The Magic Island riscosse un grande successo. Hollywood ne prese spunto per girare il primo film di zombie della storia: “White Zombie” (1932), in italiano “L’Isola degli zombies”. Un film orribile con Bela Lugosi ma in cui gli zombie erano fedeli alla versione originale.
Come lo saranno ancora nello straordinario “Ho camminato con uno zombie” di Jacques Tourneur (1943), e nei pochi altri film dei successivi 25 anni in cui compariranno.
Diverranno cannibali solo nel 1968, con la “Notte dei morti viventi” di George Romero. Qui comincia un’altra storia. All’inizio i morti viventi nella versione antropofaga furono chiamati zombie per similitudine. In assenza di una parola che li definisse se ne prese in prestito una che già esisteva e che per giunta suonava orrifica il giusto.
Ne nacque uno dei filoni cinematografici (e adesso anche televisivi) di maggiore successo. Un successo che ha perfino modificato il significato della parola. Oggi gli zombie non sono più gli schiavi che erano in origine. Sono diventati dei cannibali senza cervello che invadono le nostre case, sbranano i nostri figli e le nostre mogli, degli infetti il cui contatto ci fa diventare come loro, dei subumani cui possiamo sparare liberamente. Da vittime quali erano sono diventati carnefici. Vi ricorda qualcosa?
Trovo estremamente illuminante e assai significativa questa metamorfosi degli zombie, che è andata di pari passo con la demonizzazione dei poveri, degli immigrati, dei disoccupati, perfino di molte categorie di lavoratori. Con l’aumento delle disuguaglianze sociali.
Ognuno deve fare da sé. Dobbiamo difenderci dal vicino di casa che s’è trasformato in un cannibale, costruire muri per tenere fuori chi ci vuole sbranare, dobbiamo avere paura se incontriamo degli sconosciuti che camminano in gruppo.
Gli zombie, di questi tempi, sono dappertutto. Non date retta alle anime belle che vogliono farvi credere che si tratta di un pugno di disgraziati. Le buone intenzioni possono solo lastricare la strada per l’apocalisse.
Non è così che va il mondo. Per la sicurezza vostra e delle vostre famiglie, è molto meglio dormire con una 44 Magnum sotto al cuscino.

E fu subito trazzera

Con soli 300 mila euro, il Movimento 5 Stelle s’è garantito la vittoria alle prossime elezioni regionali siciliane. E’ quello che è costato ai grillini fare asfaltare la trazzera di Caltavuturo. Sono sicuro che gli esperti in pubbliche relazioni, i pubblicitari, i consulenti all’immagine si staranno spellando le mani. Mai una campagna pubblicitaria è costata così poco.
Ho letto alcune delle critiche assai pelose che sono state rivolte ai grillini: la strada ha una pendenza del 27 per cento, c’è un limite di 20 chilometri orari, il semaforo, il senso unico alternato e così via. Solo chi non è siciliano può prendere sul serio questo tipo di critiche.
Ci sono strade statali, in Sicilia, in cui per lunghissimi tratti non si possono superare i 50. In discesa. Eppure sono costate molto di più e ci sono voluti decenni per vederle completate. Per rispettare quei limiti di velocità bisognerebbe andare di terza per chilometri, senza mai staccare il piede dal freno. Lo so bene perché una volta, quando stampavo un giornale in Sicilia, ho provato a farlo.
E’ ovvio che tutti se ne fregano di quei ridicoli divieti. Com’è altrettanto ovvio che ogni multa per eccesso di velocità sulla “trazzera” di Caltavuturo sarà un voto in più per i Cinque Stelle.
Da qui a poco, appena il penoso governo Crocetta finirà di rantolare, Beppe Grillo governerà la Sicilia. Fatevene una ragione.
Sarà un esperimento di grande interesse scientifico. L’Onestà che pianta le sue bandiere a Palazzo dei Normanni. Perché i siciliani adorano l’Onestà. Non vedono l’ora di avere dei governanti che fanno rispettare le regole. Che fanno vincere i concorsi ai più capaci, che fanno fermare le automobili davanti alle strisce pedonali, che fanno pagare le tasse, che abbattono le case abusive, che impugnano la scure e licenziano tutti gli impiegati regionali, provinciali, comunali che da decenni rubano lo stipendio. Che mandano a casa tutti i raccomandati. Tutti, dal primo all’ultimo.
Perché se c’è una cosa che i siciliani apprezzano è l’Onestà. Soprattutto quella altrui. Vanno in brodo di giuggiole se un gruppo di parlamentari finanzia con i propri soldi la costruzione di una strada. Sono disposti perfino a votarli, se rinunciano alle loro indennità di carica. Non vedo l’ora di vedere se continueranno a votarli quando, in nome dell’Onestà, i grillini chiederanno ai siciliani di rinunciare a parte del loro proprio reddito per finanziare le opere pubbliche che alla Sicilia servono come il pane.
Perché il mio ricordo della Sicilia è leggermente diverso. Quando me ne andai dall’Isola non fu per la corruzione dei politici. Me ne andai perché non sopportavo più le illegalità commesse dai vicini di casa. Non ne potevo più della musica a tutto volume alle due di notte, della gente che mi avvelenava i cani, di dovermi guardare alle spalle mentre facevo la fila alle poste, di non potere più fare le mie adorate passeggiate sulla spiaggia perché qualcuno, da una notte all’altra, aveva deciso di tirare su una recinzione illegale.
Non vedo l’ora che i grillini governino la Sicilia e facciano finalmente rispettare le regole. La loro Onestà, fino ad ora, è servita a finanziare un chilometro di strada. L’Onestà di tutti i consiglieri regionali, provinciali e comunali, se tutto va bene, potrebbe forse farne asfaltare altri cento. Meglio di niente, per carità. Per rimettere a posto la Sicilia, tuttavia, oltre a quella dell’elettorato passivo servirebbe pure l’Onestà dell’elettorato attivo.
Alcuni precedenti storici sono incoraggianti. L’arancio, il pomodoro, l’olivo, tutte piante che oggi prosperano in Sicilia, furono anch’esse importate da qualche altro posto.
Detto senza ironia e col distacco di chi ormai da tanti anni vive in un altro paese: chi può saperlo? Anche un trapianto d’Onestà potrebbe avere la stessa fortuna.

mercoledì 8 luglio 2015

In difesa dell'euro

Sento dire in giro, sempre più spesso negli ultimi tempi, che i paesi europei dovrebbero disfarsi dell’euro e tornare al paradiso perduto delle monete nazionali.
Sento dire che se ogni paese potesse far fluttuare il valore della propria valuta a seconda delle circostanze, crisi come quella greca sarebbero più facilmente risolvibili. In base a questa tesi, se i greci avessero avuto ancora la dracma non avrebbero dovuto fare altro che svalutarla, ripagando i propri creditori con carta straccia. Molti paesi l’hanno fatto, in passato. Noi italiani eravamo degli esperti ma perfino i tedeschi, quando è convenuto loro, sono stati ben lieti di ricorrere a questo trucchetto.
La cura, è chiaro, ha le sue controindicazioni. Una è l’inflazione, che ovviamente schizzerà verso l’alto. L’altra è l’aumento dei prezzi delle materie prime, che normalmente si acquistano in dollari: se svaluto la mia moneta rispetto a quella americana, per ipotesi del 50 per cento, il gas, il petrolio e così via mi costeranno il 50% in più a valori reali. L’inflazione poi si mangerà gli stipendi dei lavoratori dipendenti, perché i salari reali non riescono mai a tenere il passo del tasso d’inflazione.
Sento dire altresì che il potere d’acquisto degli italiani, dei greci, degli spagnoli si sia ridotto dopo l’introduzione dell’euro. Può darsi. A me però sembra un errore che in logica si definisce “post hoc ergo propter hoc”: dopo questo dunque a causa di questo. Se io incrocio mastro Filippo per strada e subito dopo inciampo e casco per terra, vuol dire che la colpa è di mastro Filippo. Che da quel momento diventa uno iettatore.
Io non credo sia colpa dell’euro. Il caso vuole che mi sia ritrovato a vivere in Gran Bretagna. Un paese che, come tutti forse saprete, l’euro non ce l’ha. Ebbene, il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti è crollato pure da queste parti. Malgrado la sterlina e l’autonomia monetaria.
Qui li chiamano working poors. Lavoratori poveri: gente con un lavoro e uno stipendio e che tuttavia non riesce a pagarsi l’affitto ed è costretta, per mangiare, a mettersi in coda davanti alle mense dei poveri. Parliamo di centinaia di migliaia di persone. Più tutti gli altri che, a milioni, sopravviviamo a stento. Sarà colpa dell’euro pure in Gran Bretagna?
Oppure sarà colpa di qualcos’altro?
Ho un lungo elenco di concause, se volete. Di cose che sono accadute nei paesi con l’euro e in quelli senza.
La riduzione del potere interventista dello Stato, per esempio. Oppure l’indebolimento delle forze sindacali, che ha dato mano libera ai datori di lavoro. Le privatizzazioni, che per due soldi hanno regalato ai privati i vecchi monopoli pubblici, peggiorando i servizi e aumentandone i costi. La deregolamentazione della finanza, che ha consentito agli speculatori di mettere il mondo in ginocchio e di rimediare al loro delirio d’onnipotenza con i soldi pubblici. Il discredito montato ad arte contro la scuola e la sanità pubbliche, e l’idea malsana che perfino la scuola e la sanità debbano funzionare in base alla logica delirante del libero mercato. La mano libera concessa agli olandesi, agli inglesi, ai lussemburghesi di rubare le entrate tributarie degli altri paesi europei e di dare poi perfino lezioni di moralità agli spagnoli, agli italiani o ai greci: il bue che dà del cornuto all’asino. Devo continuare?
Non è colpa di mastro Filippo se siete caduti e non sono dipese dall’euro le scelte politiche che hanno impoverito i cittadini europei (compresi quelli che l'euro non ce l'hanno).
A me non piace vivere con la testa rivolta all’indietro. Ciò che voglio è una nuova Europa, non una vecchia moneta.

martedì 7 luglio 2015

Al contadino non far sapere quanto è buona la feta con le pere

Grande è l’imbarazzo dei leader politici europei dopo il referendum greco. Giorni difficili li attendono, scelte da far tremare le vene ai polsi.
Devono infatti decidere se suicidarsi subito o se morire di morte lenta. Mettetevi nei loro panni: non è una decisione che si può prendere su due piedi.
Quello che davvero vorrebbero, i vari Merkel, Renzi, Juncker, è che a morire siano i greci. Vorrebbero tagliare loro i viveri, far chiudere le banche, ridurli sul lastrico. Così imparano a non stare al gioco.
Sanno però di non poter tirare troppo la corda. La geopolitica ha le sue esigenze. Dovessero sul serio mettere Atene alla porta, rischierebbero di consegnare la Grecia alla Russia. Putin s’è già ripreso la Crimea, ma stavolta sarebbe molto peggio: la Grecia è un paese della NATO.
Più probabilmente continueranno per un po’ col tira e molla dei vertici, dei finti compromessi, delle interminabili discussioni ma senza staccare del tutto la spina, aspettando (e sperando) che nel frattempo il governo Tsipras finisca per logorarsi da solo, travolto dalla crisi di liquidità che il suo paese già si trova a fronteggiare.
Del resto non hanno alternative. Qualsiasi passo in avanti nella direzione di un vero compromesso, qualunque aiuto serio l’Unione europea possa dare ai greci, verrebbe interpretato dai propri rispettivi elettori come un segno di debolezza.
Peggio ancora (dal punto di vista dei leader in carica, naturalmente). Sarebbe un segnale che è meglio non lanciare ai propri cittadini, perché pericoloso e imbarazzante insieme: mai far credere agli elettori che si può fare. Che c’è una via d’uscita.
Vorrebbe dire togliere il primo chiodo dalla bara dell’austerità economica in cui l’Europa s’è andata a cacciare. Significherebbe tirare acqua al mulino dei vari Podemos, Cinque stelle o di qualsiasi altro partito riuscirà a mettere radici nei paesi maggiormente colpiti dalle misure d’austerità.
Eccolo, il suicidio di cui parlavo all’inizio.
L’alternativa è la morte lenta. Perché moriranno comunque, se proseguono su questa strada.
La via d’uscita è solo una: dire basta all’austerità. In Grecia, in Italia, in Spagna. In Europa. Se non lo fanno i leader oggi al potere ci penseranno, più prima che poi, i loro elettori.

Angela Merkel. La donna che creò Tsipras

Leader di sinistra cercasi. Disperatamente. E non avendone sotto mano alcuno nei propri paesi, i cittadini di mezza Europa adesso guardano con speranza verso la Grecia.
Una cosa è certa. La sinistra cosiddetta ufficiale, erede dei partiti di massa del secondo dopoguerra, ha fallito.
Non ha ricette di politica economica che siano davvero alternative a quelle della destra. Al massimo, piccoli accorgimenti per rendere meno dura la vita ai propri elettori. Nulla che possa davvero scalfire l’egemonia, economica e insieme culturale, degli zombie parlanti della finanza, quelli che morirono nel 2007 ma ancora predicano dal pulpito.
Questa sinistra senza autonomia intellettuale si è di fatto consegnata all’indifferenza dell’elettorato.
In tutti i maggiori paesi europei, le sue percentuali di voto oscillano ormai da tempo tra il 20 e il 30 per cento. Anche quando vince, come solo a Hollande in Francia è riuscito di recente, lo fa giusto in virtù di una legge elettorale a doppio turno che ha consentito ai socialisti di nascondere sotto al tappeto il modesto risultato del primo scrutinio.
In questo assoluto deserto politico e intellettuale, uno Tsipras finisce con l’assurgere alle dimensioni di uno statista. I greci hanno fatto tutto quello che gli zombie parlanti chiedevano loro di fare. Hanno tagliato stipendi e pensioni, hanno ridotto del 25 per cento il prodotto interno lordo per pagare i debiti, hanno costretto alla fame centinaia di migliaia di cittadini per raggiungere un avanzo primario del 5%. Si sono comportati in maniera esemplare, ma non ha funzionato.
Pure Tsipras, attenzione, è diventato primo ministro con appena il 36 per cento dei voti, in virtù della legge elettorale greca e grazie all’alleanza con un piccolo partito della destra nazionalista.
Syriza è un partito nato nel 2001, alla vigilia della manifestazione contro il vertice del G8 di Genova, quello della caserma Bolzaneto (la partecipazione a quella manifestazione di protesta fu uno dei principali punti all’ordine del giorno). Nacque dalla fusione tra una miriade di partitini di sinistra: marxisti, trozkisti, ecologisti e così via. Una cosa di mezzo tra SEL e Rifondazione comunista. Anche dal punto di vista dei consensi elettorali. La prima volta che partecipò alle elezioni prese appena il 4%.
Poi vennero la crisi economica e la fame. La sinistra ufficiale greca, quella dei socialisti del PASOK, si trovò a essere al governo. La Grecia aveva fatto ricorso alla Goldman Sachs per truccare i bilanci pubblici, ma la compiacenza degli altri paesi europei che fino a quel momento avevano retto il gioco terminò di colpo quando i governi francese e tedesco si trovarono costretti a salvare le proprie banche dalla montagna di crediti farlocchi che avevano concesso alla Grecia (a proposito: benvenuto nel club, Massimo D’Alema. In ritardo come sempre, ma noto comunque che ti fa bene avere motivi di rancore per il tuo nuovo leader).
L’allora primo ministro greco, Papandreu figlio, di fronte alla prospettiva di dovere licenziare i dipendenti pubblici e di far pagare le tasse a Onassis, nel 2011 osò pensare a un referendum. La Merkel, Sarkozy e ovviamente i mercati internazionali lo fecero fuori (notate bene: Barack Obama, che oggi implora i leader europei di venire incontro alle richieste dei greci, si dichiarò all’epoca contrario al referendum. Se oggi sembra un sostenitore di Tsipras non è certo per simpatie politiche. E’ solo terrorizzato che una Grecia fuori dall’euro possa finire nell’area d’influenza di Putin. Pure lui, da buon leader di sinistra, le cose le capisce in ritardo).
Ad ogni modo, Papandreu figlio venne sfiduciato e si dovette tornare al voto. Vinse la destra, ma senza maggioranza. Il nuovo governo non sopravvisse. Si rivotò e stavolta, uscendo praticamente dal nulla, vinse Syriza.
Il che, secondo me, dimostra due cose.
La prima è che i leader dei maggiori paesi europei hanno la lungimiranza delle talpe. Sono stati loro, in primo luogo la Merkel, a mettere Tsipras nel posto in cui si trova. La miopia della cancelliera tedesca è talmente evidente che ha ritentato con Tsipras lo stesso giochetto che gli era riuscito con Papandreu figlio. Volete sapere una cosa? Alla vigilia del referendum proposto da Papandreu erano stati fatti dei sondaggi. In base ai quali il 60% dei greci era contrario all’accordo capestro con l’Unione europea per il ripianamento dei debiti. Cosa vi ricorda questa percentuale?
La seconda circostanza che salta evidente agli occhi, è che una sinistra che si adegua a politiche economiche di destra, che dà un colpo al cerchio e uno alla botte, che sostiene di difendere lo stato sociale e intanto taglia tutto il tagliabile e perfino di più, è condannata alla sconfitta. Peggio: all’indifferenza dei propri elettori.
Perché quando la crisi morde la carne viva delle persone, i pochi cittadini che ancora si scomodano per andare a votare scelgono di solito chi sa cosa vuole. O che, quantomeno, dà l’impressione di saperlo.

venerdì 30 gennaio 2015

Hic sunt leones

Qualcosa sta cambiando. La direzione del cambiamento non è ancora chiara, ma non c’è dubbio che il monolite politico-ideologico degli ultimi 30, forse 40 anni stia cominciando a mostrare più di una crepa.
Da una parte la vittoria di Syriza in Grecia e l’avanzata di Podemos in Spagna (per adesso limitata ai sondaggi e alle dichiarazioni di voto); dall’altra l’Ukip in Gran Bretagna e il Fronte Nazionale di Le Pen “figlia” in Francia. Tra di loro Beppe Grillo, che un giorno inneggia a Tsipras e l’indomani a Nigel Farage.
Salta subito all’occhio la differenza tra le opposte direzioni del malcontento politico. I paesi più colpiti dalla crisi, la Grecia e la Spagna, hanno deciso (o sembrano sul punto di farlo, nel caso della Spagna) per un’improvvisa svolta a sinistra. Sintomatico è il fatto che in entrambi i paesi ciò accada pochi anni dopo che i cittadini avevano eletto governi di centrodestra per punire la sinistra cosiddetta ufficiale, rimasta col cerino in mano al momento dello scoppio della crisi finanziaria del 2007-08 (in Grecia governava il PASOK, in Spagna Zapatero. Ve lo ricordate Zapatero? Dio, sembra passato un secolo).
Nei paesi più ricchi, come la Francia e la Gran Bretagna, il malcontento sembra invece premiare la destra razzista e isolazionista.
In mezzo l’Italia, che per essere un poco Francia e un poco Spagna, ha finito per dare credito a un partito che è a sua volta “mezzo”: un poco di destra, un poco di sinistra. E che, badate bene, se lo avesse voluto e fosse stato capace di giocare bene le sue carte, oggi sarebbe al governo.
Non so a voi, ma a me sembra che ci sia un senso in questa simmetria.
*****
Sono anni che leggiamo di una classe media in crisi. La classe media non è un concetto astratto. Parliamo di quel ceto che i partiti politici dell’Occidente hanno corteggiato per decenni.
La classe media, la media borghesia, a seconda dei contesti e dei paesi, era composta da medici, avvocati, notai ma anche professori, piccoli imprenditori, perfino operai specializzati.
Cittadini che per reddito e spesso livello culturale potevano permettersi di essere liberi. Di votare liberamente, senza condizionamenti di sorta. Erano il centro dell’agone politico, la magna pars di quel parco elettorale che i cosiddetti partiti pigliatutto di una volta corteggiavano con particolare passione.
Non bisognava spaventarli con proposte politiche eccessivamente sbilanciate a destra o a sinistra, per non urtarne la sensibilità sociale o per non farli sentire minacciati dal basso.
I partiti politici degli ultimi 40 anni sono stati fatti a immagine e somiglianza della classe media di cui cercavano il consenso.
Si ha come la sensazione che questi partiti politici, inconsapevolmente o forse più banalmente perché accecati dalla corruzione, abbiano finito per erodere la base del proprio stesso consenso.
Hanno distrutto la classe media, costringendola a pagarsi gli esami ospedalieri, saccheggiando i loro redditi, rubando il futuro ai loro figli. E nel frattempo hanno continuato a mettere in scena, in una coazione a ripetere, la pantomima dei partiti di centro. Senza neppure rendersi conto che quel centro non esisteva più. Non esiste più.
Improvvisamente, il paesaggio sta cambiando. I sentieri che percorriamo non sono più quelli tracciati dalle mappe. Hic sunt leones.